giovedì, maggio 15, 2008

L'Ultima intervista di Paolo Borsellino

Per non dimenticare!

15 commenti:

Anonimo ha detto...

Così l'amico Antonio Caponnetto ha descritto il cristiano Borsellino: 'Poco si è scritto e parlato della pienezza e del fervore con cui Paolo ha vissuto il suo rapporto con la fede. Era un aspetto fondamentale della sua personalità e della sua vita: mai ostentato, noto soltanto ai familiari e ai più intimi amici. Una fede totale, fatta di amore per il prossimo, amore per la famiglia, serenità interiore e, negli ultimi tempi, vocazione consapevole al sacrificio, annunciato e atteso'.

'Paolo - scriverà la sposa Agnese al papa (e la bellissima lettera sarà pubblicata dall''Osservatore romano' in prima pagina, il 6 maggio 1993, alla vigilia di una visita di Giovanni Paolo II in Sicilia: quella in cui griderà il monito ai mafiosi: 'Verrà un giorno il giudizio di Dio!') - era un cristiano semplice e profondo'.

Quella sua fede la sentiamo echeggiare nelle parole del figlio Manfredi, che così ha motivato la dichiarazione di perdono agli uccisori del padre: 'In questo momento di dolore io vivo con una forza che è in gran parte quella di mio padre. In particolare la fede, la religiosità che papà aveva, l'ha trasmessa in blocco ai sui figli'.

Anche la sposa Agnese attribuisce a Paolo il segno cristiano della sua reazione all'assassinio: 'La giustizia e la verità per i fatti accaduti, l'amore e il perdono per l'uomo che sbaglia. Se c'è un insegnamento che mio marito mi ha dato è che nel cuore dell'uomo, anche di quello più cattivo, c'è sempre un angolo nascosto del buon Abele che, se opportunamente stimolato, può riaffiorare'.

trinity ha detto...

Spero di cuore che quello che hanno fatto a Borsellino e Falcone, uomini giusti che hanno avuto il coraggio di denunciare la verità, non sia fatto a Marco Travaglio.

Anonimo ha detto...

E' utile ragionare sul "caso Schifani". E - ancora una volta - sul giornalismo d'informazione, sulle "agenzie del risentimento", sull'antipolitica.

Marco Travaglio sostiene, per dirne una, che fin "dagli anni Novanta, Renato Schifani ha intrattenuto rapporti con Nino Mandalà il futuro boss di Villabate" e protesta: "I fascistelli di destra, di sinistra e di centro che mi attaccano, ancora non hanno detto che cosa c'era di falso in quello che ho detto". Gli appare sufficiente quel rapporto lontano nel tempo - non si sa quanto consapevole (il legame tra i due risale al 1979; soltanto nel 1998, più o meno venti anni dopo, quel Mandalà viene accusato di mafia) - per persuadere un ascoltatore innocente che il presidente del Senato sia in odore di mafia. Che il nostro Paese, anche nelle sue istituzioni più prestigiose, sia destinato a essere governato (sia governato) da uomini collusi con Cosa Nostra. Se si ricordano queste circostanze (emergono da atti giudiziari) è per dimostrare quanto possono essere sfuggenti e sdrucciolevoli "i fatti" quando sono proposti a un lettore inconsapevole senza contesto, senza approfondimento e un autonomo lavoro di ricerca. E' un metodo di lavoro che soltanto abusivamente si definisce "giornalismo d'informazione".

Le lontane "amicizie pericolose" di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002 (da Enrico Bellavia). In quell'anno furono riprese dall'Espresso (da Franco Giustolisi e Marco Lillo). Nel 2004 le si potevano leggere in Voglia di mafia (di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Carocci). Tre anni dopo in I complici (di Lirio Abbate e Peter Gomez, Fazi). Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato non è per ottusità, opportunismo o codardia né, come dice spensieratamente Travaglio a un sempre sorridente Fabio Fazio, perché l'agenda delle notizie è dettata dalla politica ai giornali (a tutti i giornali?).

Non se n'è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun - ulteriore e decisivo - elemento di verità. Siamo fermi al punto di partenza. Quasi trent'anni fa Schifani è stato in società con un tipo che, nel 1994, fonda un circolo di Forza Italia a Villabate e, quattro anni dopo, viene processato come mafioso.

I filosofi ( Bernard Williams, ad esempio) spiegano che la verità offre due differenti virtù: la sincerità e la precisione. La sincerità implica semplicemente che le persone dicano ciò che credono sia vero. Vale a dire, ciò che credono. La precisione implica cura, affidabilità, ricerca nello scovare la verità, nel credere a essa. Il "giornalismo dei fatti" ha un metodo condiviso per acquisire la verità possibile. Contesti, nessi rigorosi, fonti plurime e verificate e anche così, più che la verità, spesso, si riesce a capire soltanto dov'è la menzogna e, quando va bene, si può ripetere con Camus: "Non abbiamo mentito" (lo ha ricordato recentemente Claudio Magris).

Si può allora dire che Travaglio è sincero con quel dice e insincero con chi lo ascolta. Dice quel che crede e bluffa sulla completezza dei "fatti" che dovrebbero sostenere le sue convinzioni. Non è giornalismo d'informazione, come si autocertifica. E', nella peggiore tradizione italiana, giornalismo d'opinione che mai si dichiara correttamente tale al lettore/ascoltatore. Nella radicalità dei conflitti politici, questo tipo di scaltra informazione veste i panni dell'asettico, neutrale watchdog - di "cane da guardia" dei poteri ("Io racconto solo fatti") - per nascondere, senza mai svelarla al lettore, la sua partigianeria anche quando consapevolmente presenta come "fatti" ciò che "fatti", nella loro ambiguità, non possono ragionevolmente essere considerati (a meno di non considerare "fatti" quel che potrebbero accusare più di d'un malcapitato).

L'operazione è ancora più insidiosa quando si eleva a routine. Diventata abitudine e criterio, avvelena costantemente il metabolismo sociale nutrendolo con un risentimento che frantuma ogni legame pubblico e civismo come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro ("Se anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso..."). E' un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde. E' un sistema che indebolisce le istituzioni. Che attribuisce abitualmente all'avversario di turno (sono a destra come a sinistra, li si sceglie a mano libera) un'abusiva occupazione del potere e un'opacità morale. Che propone ai suoi innocenti ascoltatori di condividere impotenza, frustrazione, rancore. Lascia le cose come stanno perché non rimuove alcun problema e pregiudica ogni soluzione. Queste "agenzie del risentimento" lavorano a un cattivo giornalismo. Ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di una energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity, in competenza, in decisione. Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale.

Nel "caso Schifani" non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti. Non con Travaglio che confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia. Non con Schifani che, dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato. Non con chi - nell'opposizione - ha espresso al presidente del Senato solidarietà a scatola chiusa. Non con la Rai, incapace di definire e di far rispettare un metodo di lavoro che, nel rispetto dei doveri del servizio pubblico, incroci libertà e responsabilità. In questa storia, si può stare soltanto con i lettori/spettatori che meritano, a fronte delle miopie, opacità, errori, inadeguatezze della classe politica, un'informazione almeno esplicita nel metodo e trasparente nelle intenzioni.

Repubblica 13 Maggio 2008

Anonimo ha detto...

Caro direttore, ringrazio D'Avanzo per la lezione di giornalismo che mi ha impartito su Repubblica di ieri. Si impara sempre qualcosa, nella vita.

Ma, per quanto mi riguarda, temo di essere ormai irrecuperabile, avendo lavorato per cattivi maestri come Montanelli, Biagi, Rinaldi, Furio Colombo e altri. I quali, evidentemente, non mi ritenevano un pubblico mentitore, un truccatore di carte che "bluffa", "avvelena il metabolismo sociale" e "indebolisce le istituzioni", un manipolatore di lettori "inconsapevoli", quale invece mi ritiene D'Avanzo. Sabato sera sono stato invitato a "Che tempo che fa" per presentare il mio ultimo libro, "Se li conosci li eviti", scritto con Peter Gomez, che in 45 giorni non ha avuto alcun preannuncio di querela.

E mi sono limitato a rammentare un fatto vero a proposito di uno dei tanti politici citati nel libro: e cioè che, raccontando vita e opere di Renato Schifani al momento della sua elezione a presidente del Senato, nessun quotidiano (tranne l'Unità e, paradossalmente, Il Giornale di Berlusconi) ha ricordato i suoi rapporti con persone poi condannate per mafia, come Nino Mandalà e Benny D'Agostino (ho detto testualmente: "Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi. rapporti con signori che sono poi stati condannati per mafia"; la frase "anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso", falsamente attribuitami da D'Avanzo, non l'ho mai detta né pensata).

Quei rapporti, contrariamente a quanto scrive D'Avanzo, sono tutt'altro che "lontani nel tempo", visto che ancora a metà degli anni 90 Schifani fu ingaggiato, come consulente per l'urbanistica e il piano regolatore, dal Comune di Villabate retto da uomini legati al boss Mandalà e di lì a poco sciolto due volte per mafia. Rapporti di nessuna rilevanza penale, ma di grande rilievo politico-morale, visto che la mafia non dimentica, ha la memoria lunghissima e spesso usa le sue amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso. In qualunque altro paese, casomai capitasse che il titolare di certi rapporti ascenda alla seconda carica dello Stato, tutti i giornali e le tv gli rammenterebbero quei rapporti: per questo, negli altri paesi, il titolare di certi rapporti difficilmente ascende ai vertici dello Stato.

Che cosa c'entri tutto questo con le "agenzie del risentimento" e il "qualunquismo antipolitico" di cui parla D'Avanzo, mi sfugge.

Secondo lui i giornali, all'elezione di Schifani a presidente del Senato, non hanno più parlato di quei rapporti perché nel frattempo non s'era scoperto nulla di nuovo. Strano: non c'era nulla di nuovo neppure sul riporto di Schifani, eppure tutti i giornali l'hanno doviziosamente rammentato. I lettori giudicheranno se sia più importante ricordare il riporto, oppure il rapporto con D'Agostino e Mandalà (che poi, un po' contraddittoriamente, lo stesso D'Avanzo definisce "sconsiderato"). Ora che - pare - Schifani ha deciso di querelarmi, un giudice deciderà se quel che ho detto è vero o non è vero.

Almeno in tribunale, si bada ai fatti e le chiacchiere stanno a zero: o hai detto il vero o hai detto il falso. Io sono certo di avere detto il vero, e tra l'altro solo una minima parte. Oltretutto c'è già un precedente specifico: quando, per primo, Marco Lillo rivelò queste cose sull'Espresso nel 2002, Schifani lo denunciò. Ma la denuncia venne archiviata nel 2007 perché - scrive il giudice - "l'articolo si presenta sostanzialmente veritiero".

Approfitto di questo spazio per ringraziare i tanti colleghi e lettori (anche di Repubblica) che in questi giorni difficili mi hanno testimoniato solidarietà. Tenterò, pur con tutti i miei limiti, di continuare a non deluderli.

(14 maggio 2008)

Anonimo ha detto...

Non so che cosa davvero pensassero dell'allievo gli eccellenti maestri di Marco Travaglio (però, che irriconoscenza trascurare le istruzioni del direttore de il Borghese). Il buon senso mi suggerisce, tuttavia, che almeno una volta Montanelli, Biagi, Rinaldi, forse addirittura Furio Colombo, gli abbiano raccomandato di maneggiare con cura il "vero" e il "falso": "qualifiche fluide e manipolabili" come insegna un altro maestro, Franco Cordero.

Di questo si parla, infatti, cari lettori - che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire.

Che cos'è un "fatto", dunque? Un "fatto" ci indica sempre una verità? O l'apparente evidenza di un "fatto" ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l'esercizio indispensabile del giornalismo che, "piantato nel mezzo delle libere istituzioni", le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio ("Io racconto solo fatti") si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: "Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia" indica una traccia di lavoro e non una conclusione.

Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo "la metà degli Anni Novanta", dunque) e soltanto "di lì a poco" (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l'Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità.

E' l'impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del "vero" e del "falso". Afferra un "fatto" controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv - e dell'impotenza della Rai, di un inerme Fazio - lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: "Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso...". Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l'ha mai detta, quella frase, è l'opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe.

Discutiamo di questo metodo, cari lettori. Del "metodo Travaglio" e delle "agenzie del risentimento". Di una pratica giornalistica che, con "fatti" ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. E' un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target (gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra). Farò un esempio che renderà, forse, più chiaro quanto può essere letale questo metodo.

8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei "cuscini". Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia.

Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d'ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio.
Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all'integrità di Marco Travaglio un'ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo?

Nessuno, che sia in buona fede, può farlo. Eppure un'"agenzia del risentimento" potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che "la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso" . Basta dare per scontato il "fatto", che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca.

Cari lettori, anche Travaglio può essere travolto dal "metodo Travaglio". Travaglio - temo - non ha alcun interesse a raccontarvelo (ecco la sua insincerità) e io penso (ripeto) che la sana, necessaria critica alla classe politico-istituzionale meriti onesto giornalismo e fiducia nel destino comune. Non un qualunquismo antipolitico alimentato, per interesse particolare, da un linciaggio continuo e irrefrenabile che può contaminare la credibilità di ogni istituzione e la rispettabilità di chiunque.


(14 maggio 2008)

trinity ha detto...

La verità fa male...ed è elemento di fastidio.

Anonimo ha detto...

La verità fa male? Ma qual è la verità? E poi paragoni Borsellino a Travaglio, dimenticando forse che il primo serviva lo Stato e sicuramente non guadagnava quanto il secondo! Prima di dire c... contate fino a 10!
Nonsonoanonimo.

trinity ha detto...

La verità è che siamo governati da una massa di mafiosi! Il capo del governo in primis. .Nè più, nè meno. E in Italia quando qualcuno denuncia gli illeciti e bla bla bla...si fà presto...basta una bomba...o un misterioso rapimento...o sbaglio?

trinity ha detto...

Ops...fà senza accento...scusate!

Anonimo ha detto...

Sbagli...come al solito.
Nonsonoanonimo.

trinity ha detto...

Va bene...io forse sbaglierò...sta di fatto che l'Italia è sull'orlo del fallimento...grazie ai nostri "cari" politici, grazie alla loro corruzione, grazie ai loro interessi. Verso la nazione? Non credo proprio. Finchè la barca va...lasciala andare...diceva qualcuno. Io non credo alle menzogne che continuano a raccontare...non ci ho mai creduto. E credo di aver fatto bene.

trinity ha detto...

Adesso si stanno pure coalizzando...destra e sinistra insieme...che bella squadra...di ladri!!!

trinity ha detto...

Chi è che sbaglia?

trinity ha detto...

Solo per far chiarezza!!!

Anonimo ha detto...

L'esito del giudizio promosso dai congiunti del giudice Paolo Borsellino per il risarcimento dei danni conseguenti al barbaro assassinio.
Il Fondo di rotazione per le vittime dei delitti di mafia è processualmente parte nel giudizio. Il Fondo, assistito dall’Avvocatura dello Stato, deve, ovviamente, assicurare pari trattamento a tutte le vittime della mafia, mentre le possibilità di concreto recupero nei confronti dei mafiosi, il cui patrimonio viene confiscato, sono pressoché inesistenti.
Nella vicenda Borsellino l’Avvocatura dello Stato non si è in alcun modo opposta alle richieste risarcitorie, di cui anzi ha formalmente chiesto l’accoglimento, richiamando i principi sopra ricordati e di ciò dà espressamente atto la sentenza.
In particolare, nulla si è eccepito circa la risarcibilità del danno esistenziale subito dai familiari del giudice a causa del feroce assassinio; e di tale danno il Tribunale ha disposto il risarcimento. Si è, invece, osservato che non sembrava risarcibile il diverso danno esistenziale (denominato «catastrofico» nella citazione introduttiva del giudizio) subito in vita dal giudice Borsellino per il gravissimo turbamento legato all’attesa dalla morte annunziata.
Infatti, pur essendo indiscussa tale atroce sofferenza, essa non sembra derivare dal delitto, ma precederlo; e non appare dunque configurabile come conseguenza del medesimo.
NICASIO MANCUSO, AVVOCATO DISTRETTUALE DELLO STATO DI PALERMO Dico solo: ma tutti quelli che hanno subito tragedie simili o per le stesse circostanze, riescono a spuntarla con uno stato di diversi pesi e misure? L'avvocato non ha parlato dell'importo risarcitorio...mentre so di famiglie che riguardano le scorte disperate per non essere ricosciute...magari per dettagli meschini...come il non essere sposati in chiesa o coppia di fatto!? "Servitori" dello Stato o del simil-parastato o della società civile hanno pari dignità e quindi tocca lo stesso riconoscimento! (vale anche per il lavoro: il pubblico che a parità di livelli e ruoli costa il 30% in più del privato ha "di tutto e di più" - non solo in Rai - in danno dell'autonomo che ha un assenteismo dimezzato ma nessuna tutela!)La "Livella" (di Totò)